Ho sentito e letto almeno un centinaio di commenti riferiti alla decisione di Totti di abbandonare la Roma.
Vi sono più aspetti sui quali dissertare.
Il primo, molto pratico, si è dimesso. In una nazione dove il collante per le sedie è un grande business, l’ex Pupone ha rinunciato ai soldi. Pecunia vera, tanta. Si dirà che non ne ha bisogno. Certo. Ricordo però che il vile denaro, si racconta, resta attaccato anche alle mani dei santi.
Secondo aspetto. Poteva fare finta di nulla. Continuare a fare da paravento ad una società che, negli ultimi anni, non ha avuto trovato la fortuna nelle scelte che ha fatto. Non è stato e non è voluto diventare ipocrita nei confronti di chi, negli anni, lo ha fatto diventare l’ottavo Re di Roma. Francesco non ha voluto perculare i tifosi. Perché il calcio è di chi lo segue, di chi tifa, di chi spende per comprare i biglietti per lo stadio e le maglie dei propri idoli.
Terzo aspetto: l’orgoglio di un campione. Essere fenomeno sul rettangolo di gioco non vuole dire esserlo -automaticamente- dietro ad una scrivania. Ha fondamento questa affermazione. Ma essere stato uno dei migliori giocatori italiani è sicuramente un ottimo viatico, non fosse altro per tutte le relazioni che Totti può avere ed uno sconosciuto no. Ovviamente per dimostrare un’attitudine bisogna essere messi nelle condizioni di provare.
Chiosa. In un mondo, quello dell’informazione sportiva, ammantato di frasi fatte, di paura di sostenere delle tesi, fors’anche di codardia, Francesco Totti ha dato una grandissima lezione. Bisogna smettere di tacere. Di compiacere al limite della connivenza.
Un grandissimo gol la sua intervista. Come quelli che faceva sul campo.
Alla faccia dei soloni del calcio e di una parte della stampa che gli ha rinfacciato tanta sincerità.
Tante volte ha fatto perdere i congiuntivi, questa volta ha vinto lo scudetto dell’onestà intellettuale.
Una bandiera che non sventola dove tira il vento.